
Quando il marketing sbaglia: errori clamorosi che hanno fatto scuola
Gli scivoloni più frequenti del marketer ricadono nella sottovalutazione del contesto, nell’eccesso di fiducia, nel divario tra messaggio e valori del brand, in un’insufficiente abilità di previsione di situazioni e reazioni. Con la diffusione dei social network queste dinamiche si presentano in forme nuove: un TikTok fuori tono, un meme mal interpretato, una campagna inclusiva che risulta forzata. Andiamo dunque ad analizzare alcuni casi eclatanti, cercando di capire le ragioni del fallimento e perché certi abbagli si ripetono ancora oggi.
Errori di marketing clamorosi: Pepsi e lo spot con Kendall Jenner
Una campagna finita nell’occhio del ciclone, risalente al 2017, mostra la supermodella americana che, durante una non meglio precisata manifestazione di protesta, abbandona un set fotografico unendosi ai dimostranti. In quella circostanza Kendall Jenner porgeva una bibita a un poliziotto, contribuendo “magicamente” a stemperare la tensione. Il messaggio implicito: Pepsi può risolvere tutti i problemi con un semplice gesto. Peccato che si trattasse della banalizzazione di un tema sociale complesso: un gesto simbolico come offrire una bevanda veniva sfruttato quasi come “sostituto” ad un più profondo lavoro culturale, politico e umano. In questo caso, la lezione per il mondo del marketing è stata quella di prestare più attenzione alle cause sociali: la creatività scollegata dal contesto può apparire insensibile.
Il disastro cinese di Dolce & Gabbana
Sotto la lente d’ingrandimento della critica è finita anche la maison italiana, per via di alcuni video diffusi in Cina nel 2018. Le immagini ritraevano una modella cinese che cercava di mangiare pizza, cannolo siciliano e spaghetti con le bacchette. Il tono dello spot è stato percepito come razzista e offensivo nel Paese del Dragone, uno dei mercati più importanti per il brand: i video incriminati costarono la cancellazione di una mega-sfilata a Shanghai e persino richieste di boicottare i prodotti della casa di alta moda. Il disallineamento culturale, in questo caso, appare evidente: non basta tradurre un messaggio ma serve comprendere il contesto culturale in profondità. Anche la gestione della crisi è apparsa frettolosa e poco empatica: i due fondatori non sarebbero risultati troppo credibili nel loro messaggio di scuse dopo il fattaccio.
Il tweet di Gap post-uragano Sandy
Si sa, l’opportunismo è una delle chiavi del marketing… ma di certo non quando è fuori luogo. Nel 2012 l’uragano Sandy ha colpito la costa atlantica degli Stati Uniti, causando più di 250 vittime. In concomitanza con il cataclisma, Gap twittò invitando gli utenti a non uscire di casa e ad approfittarne per visitare il loro e-commerce e fare acquisti. Il messaggio è stato visto come cinico e privo di tatto: una catastrofe naturale usata come leva per aumentare il traffico. Il brand si scusò rapidamente ma il danno era ormai fatto. Inutile dire che, in momenti come questi, c’è bisogno di empatia reale e non di promozione: ancora oggi questo errore si verifica con alcune aziende che, in tempi di guerra o pandemia, hanno cercato comunque di mantenere il loro tone of voice propagandistico, risultando talvolta inopportune o offensive.
Hoover e i biglietti aerei gratuiti: un autogol epico
C’è chi la considera “la campagna promozionale più fallimentare di sempre”: nel lontano 1992, in collaborazione con un’agenzia di viaggi, Hoover offrì due voli gratuiti a chi acquistava un prodotto da almeno 100 sterline. L’obiettivo era chiaramente quello di aumentare le vendite e l’intuizione sembrava quasi credibile sulla carta, ma la domanda superò ogni previsione e i costi esplosero: il management non immaginava che i clienti avrebbero acquistato il prodotto solo per ottenere il volo. La promozione costò a Hoover milioni di sterline e una causa collettiva, oltre ad un danno d’immagine devastante. Di qui la lezione: un’offerta accattivante deve comunque reggersi su solide logiche economiche e studi approfonditi di fattibilità.
L’“hashtag della discordia”: il caso McDonald’s
Nel 2012, McDonald’s lanciò l’hashtag #McDStories per invitare i clienti a condividere aneddoti positivi sull’esperienza con il brand. Peccato che la call-to-action divenne teatro di tweet sarcastici e lamentele generiche su servizi, qualità del cibo, condizioni di lavoro e così via. La multinazionale dei fast food non aveva assolutamente calcolato l’“effetto boomerang” di un ecosistema in cui il malcontento può diventare virale in un istante. I social, del resto, sono ambienti non facili da controllare: ancora oggi molte aziende attivano challenge o concorsi sui social senza una reale previsione a lungo termine.