
Il cibo perfetto? Solo nelle immagini: come il marketing “inganna” il nostro appetito
Ciò che compare in un cartellone pubblicitario o in uno spot è un’idea: l’idea di qualcosa di gustoso, ricco, gratificante. Eppure, spesso, la realtà – il prodotto che ci arriva in mano – è distante anni luce da quella perfezione visiva. L’insalata non è di un verde così brillante, il pane non è così dorato e croccante, la carne non è così spessa e succulenta.
Ciononostante, ancor prima di addentarlo, il nostro cervello aveva già cominciato a gustare il panino: in questo senso, possiamo affermare che l’esperienza è cominciata con largo anticipo rispetto al primo morso. Il marketing alimentare, infatti, ha sviluppato negli anni una vera e propria arte dell’illusione che non si limita a mostrarci il cibo: ce lo fa desiderare, lo trasforma in esperienza, promessa, emozione. Ci fa “mangiare con gli occhi”, facendoci sognare il prodotto come un qualcosa di astratto.
Il marketing del cibo manipola i sensi prima del gusto: ecco come
Il “marketing del foodporn”, se così vogliamo chiamarlo, ci promette un boccone da sogno e noi ci lasciamo trasportare con fiducia da quella promessa. Ma è interessante osservare quello che accade dopo, ossia nel momento in cui le aspettative si scontrano con la realtà: non restiamo delusi in modo plateale ma accettiamo tacitamente quella discrepanza, come se fosse parte del gioco. Quando scegliamo una pizza in delivery lasciandoci conquistare da una foto strepitosa sull’app sappiamo già, da consumatori disillusi, che non sarà esattamente come sembra.
Quel momento in cui concludiamo l’acquisto e attendiamo il nostro rider fa già parte del piacere: almeno in parte, il marketing ci ha già appagati risvegliando in noi un desiderio, facendoci fantasticare su un gusto che probabilmente non proveremo mai per davvero, se non nella nostra mente. E così, quando arriva quella pizza un po’ troppo cruda o con la mozzarella tutta su un lato, in un certo senso “perdoniamo” l’esperienza. Non ci avrà dato quello che volevamo, ma ci ha comunque restituito qualcosa: una pausa, una coccola, un momento tutto per noi.
Psicologia e marketing del cibo: perché niente è come sembra?
Abbiamo visto come il nostro cervello “gusta” ancor prima che le labbra si posino sul cibo. Un hamburger ricco di condimento, una fetta di torta lucida e compatta, una lenta e ipnotica colata di cioccolato: quante volte assistiamo a queste immagini finendo per deglutire d’istinto? Il nostro corpo risponde così ad un’esperienza che ancora non c’è, ma è comunque presente, viva, quasi tangibile. Quando ci perdiamo nelle foto di un piatto ben presentato stiamo già immaginando la sua consistenza, il calore, l’aroma: lo stiamo già assaporando con gli occhi.
E così, il “marketing del foodporn” ha imparato a sfruttare questa anticipazione come leva potentissima: uno scatto nel modo giusto, il corretto riflesso, la salsa che cola, il pane che sembra appena sfornato sono tutti fattori che attivano in noi la memoria del gusto. È come se quel panino, prima ancora che nella realtà, esistesse nella nostra testa con tanto di sapore, profumo e persino masticazione. Oltre la componente estetica, poi, subentra anche una narrazione sottile, fatta di parole e suggestioni: le descrizioni abusano di termini che evocano artigianalità, freschezza, qualità (“carne 100% bovina”, “pane appena sfornato”, “formaggio filante e avvolgente”). Magari lo sono davvero, tecnicamente parlando, ma il punto è che ogni cosa è costruita per stimolare l’immaginazione, per farci percepire che ci attende un’esperienza gustativa fuori dal comune. Il marketing del cibo, in definitiva, non dice apertamente il falso ma gioca con le aspettative, le gonfia, le rimodella: ci promette qualcosa di buono ma spesso si tratta di una bontà di superficie, visiva, effimera. Buona per finta, che ci facciamo andar bene: anche quando ci rendiamo conto che il prodotto non è all’altezza dell’immagine torniamo comunque ad inseguire quella promessa di piacere. Una sorta di dolce rassegnazione, forse