
Marketing dell’ansia: perché funziona vendere i problemi prima delle soluzioni
Già, perché quest’ultima rappresenta una leva fondamentale per attivare le emozioni forti che spingono all’azione: se il cliente percepisce un problema urgente o una mancanza sarà più motivato a concludere in fretta un determinato acquisto.
Si parte dunque dal presupposto che il consumatore agisca per risolvere un disagio percepito, più che per migliorare qualcosa che già funziona. Dai prodotti tecnologici ai servizi finanziari fino a deodoranti o antivirus, i venditori esperti sanno bene che prima di trattare la soluzione devono assicurarsi che si avverta il problema, anche se prima questo risultava invisibile, tralasciabile o irrilevante.
Marketing e ansia: il problema prima della soluzione
Basandosi su emozioni, bisogni percepiti e meccanismi decisionali spesso irrazionali, il marketing affonda le sue radici nella psiche umana. L’urgenza gioca un ruolo molto più potente della logica: nessuno cerca una soluzione finché non sente di avere un problema. Anzi: spesso non ci si accorge nemmeno di avere un problema prima che qualcuno, magari il marketer di turno, non lo pone sotto i riflettori. Non acquisterai una caraffa filtrante se non ritieni che l’acqua del rubinetto possa essere dannosa, non stipulerai un’assicurazione sulla vita a meno che qualcuno non ti metta davanti, almeno simbolicamente, alla paura della morte o dell’imprevisto.
In un simile scenario subentra anche un tema di natura etica. Il confine tra risvegliare la consapevolezza di un problema effettivo e indurre un senso di insicurezza per manipolare le scelte altrui è sottile e labile. Il marketing dell’ansia può essere realmente utile nel promuovere pratiche sane o tecnologie davvero sicure, ma diventa tossico se usato per creare dipendenza da prodotti superflui. È ciò che accade, ad esempio, in alcuni contesti del settore beauty o in certi modelli di business basati sulla tesi di “non essere abbastanza”. È qui che subentra la consapevolezza del consumatore, chiamato a sviluppare un approccio critico e a porsi delle domande. Una su tutte: questo bisogno è mio o mi è stato creato? Distinguere tra informazione e manipolazione, in un mondo così ricco di stimolazioni, è la forma più moderna di autodifesa psicologica.
Esempi di “marketing dell’ansia”: il caso Apple
L’esempio di Apple è particolarmente interessante perché rappresenta una forma elegante e quasi invisibile di creazione del problema. La multinazionale statunitense ha introdotto a più riprese cambiamenti tecnologici che, da un punto di vista puramente razionale, non erano immediatamente necessari. Il passaggio dal cavo Lightning a USB-C ne è un esempio lampante: da una parte viene presentato come adeguamento agli standard internazionali e alle normative europee, ma dall’altra genera una discontinuità che crea disagio e costi per l’utente. I vecchi accessori non funzionano più: servono nuovi adattatori, nuovi cavi, nuove custodie. Ed ecco che Apple propone immediatamente la soluzione: i suoi nuovi accessori perfettamente compatibili, di qualità, venduti a prezzi premium. Il cliente non solo accetta la nuova necessità ma finisce per razionalizzarla come progresso, rafforzando anche l’attaccamento al marchio.
Ma il brand di Cupertino non rappresenta certo l’unica case history concreta. Un altro esempio curioso, risalente addirittura agli inizi del Novecento, riguarda il marketing dei deodoranti. Nessuno pensava che l’odore corporeo fosse un problema sociale fin quando non è stato spiegato il contrario: da quel momento in poi milioni di persone hanno iniziato a curarsene, comprando prodotti per una presunta esigenza che fino a poco prima non esisteva. Lo stesso discorso vale, ad esempio, per le rughe, la cellulite, la caduta dei capelli: il problema prima, la lozione o il rimedio miracoloso dopo. Anche le aziende di cybersecurity fanno largo uso del marketing dell’ansia attraverso slogan come “il tuo computer è a rischio” o “i tuoi dati possono essere sottratti”: solo a quel punto vengono venduti l’antivirus o la VPN di turno, magari tentando il consumatore con un’offerta speciale. Il marketing, dunque, ha dalla sua una potente forza persuasiva. La chiave sta nell’equilibrio: da una parte i brand devono assumersi la responsabilità etica del loro impatto emotivo mentre dall’altra è il consumatore a dover coltivare la propria lucidità, riconoscendo quando l’ansia è uno stimolo sano e quando, invece, è solo una trappola.