
Ciclo di vita dei modelli di AI: dove va a “morire” l’intelligenza artificiale?
Basti pensare che l’AI possiede un vero e proprio ciclo di vita: progettata per imitare il cervello umano, finisce per avere un’“esistenza” simile ad esso. Si viene a creare un parallelismo curioso, anche sul piano simbolico: nel tentativo di replicare l’intelletto umano, abbiamo finito per proiettare nell’AI le nostre stesse dinamiche esistenziali.
E così, il ciclo di vita dei modelli di intelligenza artificiale si basa su concetti come nascita, crescita, evoluzione, invecchiamento e, infine, scomparsa. Ma dove vanno a “morire” queste tecnologie? Che fine fanno i software che un tempo ci sembravano straordinari ma che oggi sono diventati obsoleti? È interessante approfondire come l’AI non abbia un “cimitero”, ma ha un archivio. Non ha una “tomba” ma ha versioni precedenti, documenti di rilascio, righe di codice dimenticate: vive nei log, una sorta di diari di bordo di computer e programmi, nei backup, nei ricordi degli ingegneri che l’hanno progettata.
Ciclo di vita dell’AI: la nascita tra addestramento e “prime parole”
Il ciclo di vita di un sistema di intelligenza artificiale comincia con la sua gestazione, che coincide con la fase di addestramento. Quest’ultimo è un processo lungo e costoso, durante il quale il modello viene nutrito con enormi quantità di dati: milioni o addirittura miliardi di frammenti di linguaggio, immagini, codici, regole, comportamenti.
In questa fase iniziale l’AI inizia a formare la propria identità operativa, una struttura interna che le permetterà di analizzare prompt, rispondere, generare contenuto. Quando è pronta, dopo gli opportuni test, la si lancia nel mondo, la si integra in applicazioni, la si sperimenta sul campo. All’inizio brilla per velocità, innovazione, fluidità nelle risposte, capacità di comprensione. Proprio come un giovane in rampa di lancio, pieno di potenzialità e desideroso di “spaccare il mondo”.
La “maturità” dell’AI: utilizzo e ottimizzazione
Con il passare del tempo, la rete neurale entra in quello che possiamo chiamare periodo di maturità. È stabile, produttiva, scalabile: le aziende la impiegano abitualmente, ottimizzandola con versioni successive e adattandola a casi d’uso specifici. È in questo momento che l’AI è probabilmente al massimo del suo splendore: non più una promessa, ma una risorsa concreta.
Tuttavia, già in questa fase la polvere comincia ad accumularsi nei circuiti: le esigenze cambiano, i dati evolvono, le aspettative crescono. Per non parlare del fiato sul collo della concorrenza: iniziano ad emergere nuovi modelli più performanti, più leggeri, più addestrati. Le innovazioni che un tempo sembravano rivoluzionarie, in questo frangente appaiono lente o imprecise: è soltanto l’inizio dell’obsolescenza.
La vecchiaia dell’algoritmo: dismissione silenziosa
Ad un certo punto, da un momento all’altro e in modo incontrovertibile, il modello non viene più aggiornato: i suoi creatori chiudono i rubinetti, interrompendo gli investimenti. In molti casi, l’AI continua ancora il suo ciclo di vita in un’azienda poco aggiornata o in qualche server dimenticato. O, in alternativa, viene archiviata: conservata in uno storage offline – hard disk, chiavette USB o altri dispositivi fisici – un po’ come un libro in un’antica biblioteca. Non viene cancellata del tutto ma diventa parte di una sorta di “archeologia dell’intelligenza artificiale”: potrebbe diventare così oggetto d’indagine di qualche ricercatore curioso interessato a rispolverarla, magari per uno studio retrospettivo o per analizzare come si è evoluto il linguaggio delle macchine.
È a questo punto che torna la domanda iniziale: l’AI muore davvero? In senso stretto, no: i modelli non hanno una coscienza da spegnere. È più corretto affermare che decadono: vengono dimenticati, superati, in certi casi vengono riciclati perché i loro dati possono servire come base per il training di nuove tecnologie. In questo senso, si può parlare di una memoria tecnica della specie artificiale: un’evoluzione continua in cui il vecchio non sparisce ma si trasforma. Ed è affascinante pensare che, in ogni nuovo modello, un piccolo frammento di quelle vecchie AI continui a vivere, anche se nessuno se ne accorge più.